In cinque giornate d’estate a Longobardi, colme di emozioni, sorrisi e condivisione, i giorni scorrono come pagine di un diario scritto a più mani, intriso di significato. Ogni giornata è stata l’occasione per guardarsi dentro, per affrontare sé stessi e l’altro con occhi nuovi, per seminare valori duraturi. È così che noi ragazzi al campo abbiamo vissuto un viaggio interiore, fatto di parabole, metafore, disegni e profonde riflessioni che hanno lasciato un’impronta indelebile.
Il seme e la roccia: chi scegliamo di essere
La giornata è iniziata con l’immagine della parabola del seminatore, simbolo di ciò che ciascuno di noi può lasciare nel cuore degli altri. Seminare, nella vita, significa dare una parte di sé, scegliere di esserci, anche quando il terreno non è sempre fertile. La strada della vita può essere impervia o fiorita, ma è proprio questa varietà che ci definisce. Un parallelismo suggestivo ha guidato i pensieri: la pietra pomice e il granito. Entrambe nate da un’eruzione vulcanica, come quegli eventi che scuotono le nostre esistenze. Ma la pomice, raffreddandosi in fretta, resta leggera e fragile, in balia del mare. Il granito, invece, trova nel tempo la forza per diventare solido e resistente. Così anche noi: possiamo scegliere se vivere galleggiando tra gli eventi o trasformare le difficoltà in forza e vigore. Non sempre incontriamo fiori sul nostro cammino: a volte nascono rovi, ma è lì che si misura la nostra forza, la nostra determinazione a camminare a testa alta, pur rischiando di pungerci. E proprio in quei momenti, può emergere la figura di un “giardiniere”, qualcuno che ci aiuta a coltivare il nostro sentiero interiore, a far fiorire anche ciò che sembrava sterile.
Le ferite che parlano silenziosamente
La riflessione domenicale ha aperto lo spazio alla parte più vulnerabile di ciascuno: le ferite. Fisiche o psicologiche che siano, esse bruciano, restano impresse sotto la pelle e nel cuore, e spesso non sappiamo come affrontarle o renderle visibili agli altri. Ci chiudiamo in bolle, in campane di vetro, per timore del giudizio, della solitudine, dell’incomprensione. Abbiamo imparato che esistono due modi di guarire: per prima o seconda intenzione. C’è chi riesce a cucire in fretta le ferite, e chi ha bisogno di tempo, di spazio, di fiducia. In entrambi i casi, però, ciò che conta non è la velocità, ma la guarigione stessa. E quando troviamo qualcuno che si ferma, ci ascolta e si prende cura di noi, ci sentiamo accolti, compresi, amati. Il disegno di giornata raffigura un omino dentro un cerchio: quella fragile bolla in cui ci rinchiudiamo quando il dolore è troppo e la voce troppo debole per uscire.
Il gregge, la pecora e il pastore: l’amore che non lascia indietro nessuno
Guidati dalla parabola del buon pastore, noi giovani ci siamo interrogati sul senso dell’accoglienza e sull’importanza di non lasciare indietro nessuno. Il pastore, pur avendo 99 pecore, decide di andare a cercare quella smarrita: un gesto che insegna quanto ogni singolo individuo abbia valore, quanto sia prezioso e degno d’amore. Quante volte anche noi siamo parte delle 99, tranquilli nel nostro gruppo, senza preoccuparci di chi è ai margini. O, al contrario, ci siamo sentiti la pecora smarrita, esclusa, sola, in cerca di uno sguardo che ci riconosca. Ecco allora che emerge il bisogno di una guida, di un “buon pastore” che ci cerchi, che non si arrenda, che ci accolga. Ma anche la consapevolezza che ognuno di noi può diventarlo per qualcun altro, dopo aver imparato a essere guidati.
Il disegno del giorno rappresenta proprio questo: un gregge smarrito alla ricerca della strada giusta e, in mezzo, la figura del buon pastore – che per molti ha preso il volto di animatori, catechisti, sacerdoti, amici – figure che, con dolcezza e fermezza, hanno indicato la via senza mai forzare il passo.
Le serate di domenica e lunedì sono state particolarmente speciali poiché abbiamo avuto modo di svolgere l’adorazione. Cosa si intende per “adorazione”? Molti di noi infatti erano scettici, perché era la prima volta. Ci si siede dinanzi a Gesù eucarestia, che, dunque, si fa corpo per noi. Negli animi di alcuni é subentrata un po’ di ansia; ci si chiedeva cosa fare e, soprattutto, come comportarsi dinanzi a Cristo Gesù. Nel momento dell’adorazione non dobbiamo chiederci cosa può fare, dirci o offrirci Nostro Signore, Egli sempre ci guida, ci guarda, ci aiuta e ci ascoltaperchè gli occhi di Dio guardano il cuore ed Egli sa sempre cosa émeglio per noi. Piuttosto abbiamo riflettuto su cosa, in quei venti minuti di adorazione, avremmo voluto dare e offrire noi a Cristo Gesù. Al termine dell’adorazione noi ragazzi ci siamo confrontati. Alcuni hanno detto che é stato molto rilassante, benefico e liberatorio tant’è che si sono trattenuti più del previsto per il tempo che é volato velocemente; ma avevano bisogno ancora di qualche minuto con il Signore, che non ha né orari e né fretta per accoglierci. Altri hanno pianto sia durante che dopo l’adorazione. Era come se ci si stesse confidando con qualcuno che ci capisce più di chiunque altro, anche più di noi stessi. É stato un modo per dare voce a quelle paure che ci preoccupano ogni giorno e che molto spesso teniamo per noi stessi per paura di affrontarle. Ma a chi ama Dio tutto è possibile, e una semplice preghiera dinanzi all’eucarestia, con un compagno al nostro fianco (l’adorazione éstata svolta in coppie) ha compiuto un miracolo, una purificazione nei nostri cuori.
Padre Pio diceva “Ogni giorno é un giorno in più per amare, un giorno in più per sognare, un giorno in più per vivere.”
Questa frase ispira positività e speranza e riflette il senso dell’adorazione: vivere appieno ogni momento, coltivando l’amore e coltivando i propri sogni invocando Dio che c’è per noi sempre, ogni qual volta che ne abbiamo bisogno.
Martedì 15 – Il perdono: un dono che spezza il muro
Il cuore del martedì è stato il perdono, parola che racchiude in sé la forza del dono più grande: donare totalmente, rinunciare al rancore, ricucire strappi invisibili. Si è parlato delle due parti coinvolte: chi ferisce e chi è ferito. Entrambi soffrono, entrambi pensano, eppure solo attraverso il dialogo, l’ascolto, l’umiltà delle scuse sincere si può ricostruire. Perdonare non è dimenticare, ma scegliere di andare oltre, di ricucire, di ricominciare. E chiedere scusa è un gesto di grande coraggio, di abbattimento dell’orgoglio, che spesso ostacola la pace. Ma anche chi è chiamato a perdonare ha una responsabilità: riconoscere l’autenticità dell’altro, e saper accogliere quel gesto. Gesù è colui che mette la ciliegina sulla torta al momento giusto. Egli è il primo pronto a perdonarci per tutti gli sbagli. La parola di Dio è un balsamo sulle nostre ferite, che vengono lenite dal suo abbraccio di misericordia.
Nel disegno, due persone divise da un muro – la ferita del litigio – ma al centro, una frase semplice, carica di speranza: “Ti chiedo scusa”. Perché anche i muri più spessi possono cadere, se ci si tende la mano con il cuore aperto.
Il campus qui é un’esperienza grande, coinvolgente, entusiasmante; un’esperienza che nutre, riempie e arricchisce i cuori. Longobardi é la casa degli animatori, é un luogo in cui tutto diventa comune, la condivisione é la chiave. In questa strutturasono custoditi tantissimi ricordi di chi, prima di noi, ha avuto la fortuna di poter vivere questa esperienza. Si sente nell’aria quella sensazione di spensieratezza, animazione, condivisione, fratellanza e divertimento. Ma, in verità, cosa ci ha lasciato Longobardi? Cosa rimarrà impresso nei nostri cuori? L’ultimo giorno, si sa, racchiude in sé i momenti di pianti, di baci e abbracci che ci scambiamo reciprocamente per la fine di un altro percorso insieme. Ma cos’è veramente che fa piangere? Il non essere svegliati più alle sette di mattina dagli educatori con la musica a palla? Le notti in bianco trascorse tutti insieme; magari venti persone riunite in una stanza per due? O le ore trascorse a mare, tra tuffi, schizzi, risate? Ci fa piangere la nostalgia di un qualcosa che, tuttavia, non è soffiata via da un alito di vento. Il motore che muove tutto e che ci aiuta è Dio, il buon seminatore nei terreni di tutti. Il post campo-scuola dipende solo da noi, dal terreno che vogliamo diventare o continuare ad essere: un terreno duro e roccioso sul quale cadono i semi, ma che poi verranno spazzati via dal vento? O un terreno fertile e vigoroso dove i semi potranno germogliare forti e sani, grazie all’impegno nostro e di vari “giardinieri” chiamati da noi a curare il nostro giardino? Longobardi è solo una struttura nella quale conviviamo per diversi giorni, ma il Longobardi che viviamo nel cuore, lo possiamo trovare dappertutto. Non è la struttura che fa il campo, ma noi.
E quindi un grande grazie a tutti i nostri educatori, che ci hanno voluto trasmettere l’idea di una casa che può spostarsi dappertutto e nella quale le colonne portanti, i muri, i tetti sono le persone che vivono intorno a noi. I cuori di tutti noi giovani arderanno sempre, terranno accesa quella luce di speranza, entusiasmo e voglia di stare insieme se la parola di Dio dimorerà per sempre dentro di noi.
